Mar 012015
 

Fig.1Un notissimo quadro di Magritte (Fig. 1) raffigura una mela, una bella mela matura, sopra la quale la didascalia dice Ceçi n’est pas une pomme, Questa non è una mela.

Un filosofo direbbe che questa è un’antinomia logica, ne discetterebbe approfonditamente, ci scriverebbe sopra articoli e trattati, come è effettivamente accaduto. Più semplicemente diremmo che è un enunciato contraddittorio, che è ovvio che l’immagine di una mela non è una mela, una mela reale, di quelle che si mangiano.

E allora?

Gli insegnanti sanno benissimo che gli studenti non devono confondere le immagini con la realtà, ma allora, che ci stanno a fare le immagini nei libri di testo?

Togliamo di mezzo quelle puramente esornative, o volte a far salire il prezzo del volume. Di queste non parleremo.

È evidente che molti oggetti della realtà naturale non sono osservabili a scuola, e neanche uscendo a fare una passeggiata, per la distanza, le dimensioni, il luogo, il tempo in cui sono esistiti o che richiedono per manifestarsi, e di questi sarà senz’altro utile averne un qualche genere d’immagine.

È altrettanto evidente che le mele non rientrano in quest’ultima categoria. Ma, dopo aver chiarito che l’immagine NON è la stessa cosa dell’oggetto raffigurato, e per le mele possiamo stare relativamente tranquilli, se consideriamo altre immagini, siamo sicuri che lo studente veda quello che l’autore del libro o l’insegnante vogliono che lui veda?

Rudolph Arnheim, ne Il Pensiero Visivo (1974), fa notare che “l’esperto e il novizio vedono cose diverse, ed esperti diversi vedono pur essi in modo diverso”, cioè la stessa immagine retinica può portare a percezioni e comprensioni diverse, e di questo è necessario tener conto, nell’insegnamento.

La stessa fotografia di un oggetto non è una copia fedele dell’oggetto: l’angolazione, le dimensioni, il contesto, lo sfondo, il contrasto, introducono un’intenzionalità che bisogna riconoscere, per comprendere il messaggio che l’autore della foto, o di chi ha scelto quella foto particolare, intendono trasmettere.

Ci sono poi immagini fotografiche che sono state ottenute attraverso procedimenti complessi e che, per essere comprese, richiedono una qualche conoscenza del processo che le ha prodotte. La Fig.2 è una cellula, col suo bel nucleo, il reticolo endoplasmico, i mitocondri, eccetera? Sì e no: a rigor di termini è l’immagine di una sezione ultrasottile (da cui l’aspetto di disegno bidimensionale, e le cellule non sono bidimensionali!), fotografata con un microscopio elettronico a trasmissione, in cui il contrasto delle diverse strutture rappresenta la distribuzione degli atomi di piombo adoperati per “colorare” (cioè dare contrasto) a componenti cellulari che essendo formati da atomi leggeri (C, H, O, N, P…) devierebbero troppo poco gli elettroni per fornire un’immagine apprezzabile.

Un altro problema è la varietà d’immagini differenti che i libri spesso propongono per rappresentare lo stesso oggetto, senza spiegare perché appaiano così differenti. Le Figure 3-9 propongono una serie d’immagini del DNA, tutte una diversa dall’altra. Perché? Qual è l’immagine “vera”? Cinque sono immagini grafiche, e due sono micrografie elettroniche. Perché le immagini grafiche sono così differenti (e sulla rete se ne possono trovare innumerevoli esempi)? Perché sono modelli, cioè rappresentazioni che intendono illustrare, mettere in evidenza, spiegare, discutere una qualche caratteristica, una qualche proprietà particolare della realtà, trascurandone molte altre. Saranno, di volta in volta, la struttura a doppia elica, o la complementarità delle basi, o il diverso numero di legami idrogeno nelle due coppie di basi, o i volumi di van der Waals degli atomi delle due catene, e così via. Sono strumenti conoscitivi e non copie fedeli della realtà, come una carta geografica non è una copia del territorio, ma una sua rappresentazione parziale e in scala.

Le due ultime foto sono immagini al microscopio elettronico, anch’esse diverse una dall’altra. Perché? Dipende dalla tecnica di preparazione, dal tipo di microscopio, e soprattutto da quel che si voleva rivelare con quella particolare foto.

Per concludere, le immagini vanno esaminate, discusse e comprese perché possono essere potenti strumenti cognitivi nei riguardi della realtà, ma sono appunto strumenti, e non la realtà stessa.

Ma torniamo alla nostra mela.

La Figura 10 è la foto di una mela. Una mela reale, una mela Gold, che posso anche mangiare a morsi (Fig.11) (e questo mi prova che è una mela reale!). Ma quando porto una mela in laboratorio, e la faccio sezionare a uno studente, per mostrare un comune esempio di falso frutto, e racconto che il vero frutto, contenente i semi, è il torsolo, eccetera, quella non è più una mela, è LA MELA, diventa il modello di tutte le mele, Golden, Annurche, Renette…

L’oggetto naturale, quando diviene modello, quando è musealizzato (Fig.12), non è più la stessa cosa. Diventa uno strumento conoscitivo, che di volta in volta sarà usato per questo o quell’argomento, per questo o quel problema, a seconda delle intenzioni dell’insegnante. Questo significa che nella visita a un museo, va bene ammirare lo scheletro del dinosauro o della balena, il cranio dell’uomo di Neanderthal, o il diamante più grande del mondo, ma non basta ammirare, gli oggetti vanno visti come “illustrazione” reale, come modello, come esempio di qualche problema scientifico.

E lo stesso oggetto può assumere valenze molto diverse, a seconda del punto di vista, del contesto conoscitivo i cui viene a essere posto: pensate alla mela del botanico, del frutticoltore, del commerciante, del cuoco o del bambino, che in un sussulto di educazione alimentare, la riceve come merenda, invece della agognata merendina.

Per concludere queste contorte considerazioni sulle mele, vorrei riportare due citazioni.

La prima è ripresa da quel complicato (complesso?) libro di Douglas R. Hofstadter “Gōdel, Escher, Bach”, e riguarda la rappresentazione artistica come creazione di simboli della realtà: “… Jaspers Johns e Robert Rauschenberg esplorarono entrambi la distinzione tra oggetti e simboli usando gli oggetti come simboli di se stessi o, al contrario i simboli come oggetti. Tutto questo aveva forse lo scopo di farla finita con l’idea che l’arte è un passo indietro rispetto alla realtà, che l’arte parla in “codice”, per cui chi osserva deve agire come un interprete. Si trattava di eliminare il passo dell’interpretazione e lasciare che l’oggetto nudo fosse, punto e basta. Tuttavia, se l’intenzione era questa, fu un fiasco colossale, e non poteva non esserlo”.

Cioè se noi esponiamo in una galleria d’arte una mela, come se fosse un’opera d’arte, il pubblico non capirà l’intenzione dell’artista, non saprà neanche cosa chiedersi riguardo al significato dell’“opera”, e passerà avanti, se è dotato di molta calma e di educazione, con un sorriso imbarazzato.

La stessa perplessità che mostrano gli studenti se si chiedesse di scrivere le loro osservazioni su di un oggetto, un fenomeno, un paesaggio, senza che siano state date precise consegne.

E infine una riflessione di Magritte, a proposito di uno dei suoi enigmatici quadri: “… il modo in cui noi vediamo il mondo: noi lo vediamo come se fosse al di fuori di noi, anche se si tratta soltanto di una sua rappresentazione mentale che sperimentiamo dentro di noi”.

Senza modelli, concetti, organizzatori cognitivi, per dirla con linguaggio pedagogico, costruiti nella nostra mente, senza questi strumenti mentali, non sapremmo competere con la complessità del mondo che ci circonda, e aiutare i discenti a costruirsi questi strumenti mentali è il compito principale di noi docenti.

Bruno Bertolini

Riferimenti bibliografici: Arnheim, R., Il pensiero visivo, La percezione visiva come attività conoscitiva, Einaudi, Torino 1974.

 Posted by at 17:50