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 Il Verziere di Melusina - L’erica  

di Laura Sbrana


Fu la fanciulla nella brughiera, nella brughiera, tutta una settimana, tutta una settimana, fu la fanciulla nella brughiera, nella brughiera, tutta una settimana ed ancora un dì… Anonimo inglese del XII sec. Con il nome di Erica, dal greco ereìke o erìke che ha dato il latino erica, si indicano, sia in botanica (per intervento di Linneo che nel 1735 confermò la deno-minazione precedentemente assegnata da Tournefort), che volgarmente, due diversi generi, ambedue della famiglia delle Ericaceae: Erica, che comprende circa seicento specie, e Calluna, con una sola, C. vulgaris. Il nome Erica deriva dal greco erèiken = rompere, in riferimento o all’azione trituratrice che, secondo la medicina popolare, la pianta ha sui calcoli renali, o alla fragilità delle sue foglie o, infine, alla capacità delle sue radici di penetrare persino tra le rocce silicee; anche Calluna, denominazione creata nel 1802 dal botanico Salisbury, viene dal greco, e precisamente dal verbo kallùno = spazzare, allusivo del tradizionale impiego delle eriche, in particolare delle arboree, come scope. Dalla parola greca per qualche studioso viene il topo-nimo Erice, mentre sicuramente da uno dei nomi volgari italiani, brugo, “vocabolo di area, se non di origine, gallica” (come testimonia il francese bruyère), ancora in uso, ma quasi esclusivamente in Piemonte, Liguria, Lombardia e Trentino, attraverso le forme *brucaria e brughera, deriva brughiera, parola “attac-cata alle condizioni geomorfologiche del Nord”, e il toponimo Brugherio. I nomi con cui più spesso la pianta viene volgarmente chiamata in Toscana, stipa e scopa derivano rispettivamente dal latino stipula = stoppia, erica arborea (lo stesso da cui sembra derivi anche il nome di luogo Stiviere) e dal greco skèptomai = appoggiarsi, stessa radice di skeptron = bastone e, quindi, scettro. Alla pianta è erroneamente legato pure il nome proprio Erica, anche nella variante grafica Erika, (lo portano circa tremila Italiane, con una prevalenza di Altoatesi-ne), che, invece, è di origine germanica ed ha una “base lontana nel nome scandinavo maschile Erik, antico Eirikr”, divulgato soprattutto da “Erik il Rosso”, colonizzatore normanno della Groenlandia nel secolo XI, e dai re svedesi del Medioevo e del Rinascimento. Una suggestione derivante dal campo dello spettacolo ha divulgato anche la “traduzione” inglese Heather. Per gli antichi questa pianta ha presentato difficoltà, sia per l’individuazione che per la descrizione, tanto che il Mattioli è eccezionalmente impreciso e parla dell’Erica e di “un’altra Erica”, invitando il lettore a guardare le relative tavole botaniche, “acciocché ogni uno resti meglio satisfatto et possa appigliarsi a quella che piue li piacerà”; il Mattioli è anche esplicitamente critico nei confronti e degli autori antichi in genere, perché descri-vono la pianta con eccessiva brevità, e, in particolare, di Plinio (che “accusa” di usare “parole le quali non son però di tanta chiarezza che si possi dirittamente affer-mare qual pianta sii in Italia che legitimamente ne rapresenti l’Erica”), e di Marcello (che, “interprete di Dioscoride, si crede, ingannandosi di gran lunga, che l’Erica sii una spetie di ginestra”). In ogni modo, per il Mattioli, certo il più “sperimentale” degli antichi bota-nici, l’Erica “è arbuscello proprio de l’Asia et de la Grecia; è pianta fruticosa, di color di rosmarino, ramusculosa con foglie simili al tamarigio, ma è molto più picciola; fiorisce ella due volte l’anno, onde dicesi che di tutte le piante salvatiche è la prima et l’ultima che fiorisca, a primavera et dopo le pioggie d’autumno, quando sola fiorisce ne le selve; poi che li fiori le durano fino a’l principio de’l verno, le api pasconsi di detti fiori tutto ‘l tempo de l’autumno”. Ai primi dell’Ottocento, Gaetano Savi individua sei specie di erica (E. arborea o Scopa arborea, E. scoparia o Scopa da granate, E. multiflora o Scopa florida, E. mediterranea o Scopa marina, E. herbacea o Scopa carni-cina, E. vulgaris o Scopa sorcelli) come “a noi indigene e viventi tutte in terreni aridi e magri, negli arenosi e in fra sassi”. Il Savi, dopo aver dato delle sei specie precisi elementi fitografici e tempi di fioritura (è molto interes-sante che chiami “tirsi”, parola poeticamente classica, le infiorescenze dell’erica), osserva che “son tutti bellissi-mi alberetti e da trarne util partito ne’gran giardini... la fioritura di queste piante riempie tutto l’anno: quelle basse si posson far servire a coprire i luoghi incolti e le eminenze, e le altre devon aver posto ne’boschetti, o esser tenute in gruppi isolati”. Il Savi insegna anche come ottenere nuove piantine o opportunamente trapiantarne di selvatiche: “Ce le possiamo procurare...

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