Il gelo a Venezia: una correlazione tra eventi climatici e ripercussioni sociali
Il brano è tratto dal libro di Dario Camuffo “ Clima e uomo. Meteorologia e cultura: dai fulmini di Giove alle previsioni via satellite”, Saggi rossi Garzanti, Milano, 1990. (...) “Intanto la rigidezza eccessiva dell’aria rese fatale ai poveri che morirono in molto numero per il freddo e il bisogno, attesa la carestia sopraggiunta, sebbene venissero introdotte tante cibarie, perché erano vendute a prezzo ad arbitrio de’ proprietari, ai quali due pericoli occorrendo la Pubblica Carità, tosto che ne ha conosciuto il bisogno, fece dispensare alle fraterne (confraternite) de ’ poveri buona quantità di stelle dell’Arsenale e con ordini risoluti a tutti i li venditori di commestibili, particolarmente delle carni, proibì loro di domandare prezzi indiscreti.In pari tempo era imminente un altro disordine per la penuria d’acqua, che consumandosi tutto giorno dai pozzi, non poteva essere sostituita coll’aiuto della Cerinola gelata anch’essa, con la Brenta e con le Lagune, né v’era speranza che potesse venir rimessa dal colamento delle nevi suddette troppo indurite , né da pioggia, per essersi mantenuto il tempo sempre sereno. Ma ciò pure pose riparo, per quanto fu possibile, la Paterna Pubblica Vigilanza, imped(i)ndo con ordini risoluti, che non ne fosse fatto uso soverchio, e però facendo chiudere i pozzi delle Contrade, permettendo solo a’ Capi di Contrada di lasciar prendere un secchio ogni giorno per ogni casa” Perdurando l’assenza di pioggia, ai veneziani non restava che pregare, come racconta il Benigna nella gelata del 1755: “ Li 11’ (di gennaio) detto sabato, processione a San Marco per la pioggia”. Quell’anno furono fortunati: nelle notti dei giorni seguenti venne un po’ di pioggia. Quando la morsa del ghiaccio si stringeva ulteriormente, la situazione di colpo migliorava: lo strato di ghiaccio spesso venti centimetri, come misurato nel 1929, o quindici pollici veneti, come testimonia G.Toaldo nel 1755, diveniva una nuova via di comunicazione, e la parte più spessa era proprio quella che congiungeva Venezia a Mestre. Su questa nuova via si muovevano persone a piedi, a cavallo ,in slitta e su carretti, animali da macello e ogni altro genere di sussistenza.Nelle accurate cronache del tempo, non si trova menzione di rifornimenti idrici, ma solo di vino, probabilmente perché questo ha un punto di congelamento più basso e in periodi di gran freddo, in assenza di impianti di riscaldamento domestico, aiuta psicologicamente a sopravvivere, il che rientra perfettamente nello spirito veneto che nelle cronache lamenta solo la morte delle vigne e ritiene pericolosa l’acqua perché “fa marcire i pali e arrugginire gli stomaci di ferro”. In assenza di impianti di riscaldamento la neve sui tetti non fondeva facilmente, con l’effetto positivo di isolare termicamente. In caso di precipitazioni abbondanti il suo accumulo poteva sfondare i tetti, fatti a carena di nave e non adatti a sopportare grandi pesi, come dimostrò tragicamente l’inverno del 1608. “Nel principio dell’anno fu un
freddo a Venezia quasi insopportabile, che recò perfino a tanti
la morte, sì grande che superò la memoria degli uomini.
Cadde tanta neve, che non si poteva transitar per le strade, né
uscir di casa. I tetti per l’igente pondere di esse nevi ebbero
incredibile rovina, dappoiché alcuni si aprirono, altri caddero.
E durò questo dissesto, anzi generale rovinio, intorno a tre
mesi; in capo ai quali poterono uscire da casa; ricuperando nel frattempo
le vettovaglie coi cesti per i balconi; e si cominciarono a riempire
le chiese di gente, mentre molto spesso erano rimaste chiuse alla
ufficiatura nel tempo dell’eccessiva neve”
(...) Dario Camuffo
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