Come è distribuita sul pianeta la biodiversità?
Perché ai tropici c’è una maggiore ricchezza di specie?

Gli ecologi considerano tre tipi di misura della biodiversità, come è riportato da Richard Leakey e Roger Lewin nel libro “La sesta estinzione”, Bollati Boringhieri1998. La prima, la diversità alfa, riflette il numero di specie presenti in una comunità ecologica. La diversità beta confronta la composizione di specie di comunità vicine che differiscano per certe caratteristiche fisiche, come l’altitudine, o il grado di irraggiamento solare ecc. La diversità gamma abbraccia, infine, comunità distribuite su un territorio più ampio e pertanto può includere regioni con habitat simili, ma separate da molti chilometri. La caratteristica più evidente della biodiversità di tutto il pianeta è la sua ineguale distribuzione. La diversità delle specie è, infatti, massima all’equatore e diminuisce con regolarità andando verso latitudini maggiori. Inoltre, un altro aspetto da considerare è la profonda differenza esistente tra la varietà di specie presenti negli oceani, e quelle ospitate dalle terre emerse.
L’ineguale distribuzione degli organismi sul pianeta, in funzione della latitudine, è denominata gradiente latitudinale della diversità delle specie e numerose teorie sono state formulate per spiegare questo fenomeno.
Alcuni dati possono aiutare a comprendere il fenomeno. Si è visto ,ad esempio,che la distruzione di un miglio quadrato (un miglio =1609m circa) di habitat, distrutto ai tropici,mette potenzialmente a rischio un numero di specie almeno dieci volte superiori a quello minacciato dalla perdita di una superficie di simile estensione, ma che si trovi nelle zone temperate.
Il quadro poi che emerge dallo studio della vita acquatica è sorprendentemente simile a quello delle terre emerse, come è stato confermato da uno studio di numerosi ricercatori, alla fine del 1993.La massima diversità è concentrata intorno all’equatore, mentre essa diminuisce mano a mano che ci si allontana da esso e si procede verso latitudini maggiori. Quest’ultima acquisizione è risultata alquanto imprevista, poiché si pensava che a grandi profondità, vi fosse una monotona distribuzione di specie, ed inoltre era opinione diffusa che i gradienti ambientali dei modelli su larga scala non fossero in grado di influenzare gli ecosistemi di mare profondo. A questo punto, era importante formulare delle ipotesi che spiegassero questa ineguale distribuzione di diversità. Una delle teorie più accreditata è quella del tempo, secondo la quale, le condizioni ambientali prevalenti ai tropici si sarebbero stabilizzate da un tempo più lungo, se confrontato con quello necessario per la realizzazione delle condizioni ambientali delle zone temperate. La causa principale di questa differenza sarebbe da ricercare nel fenomeno periodico delle glaciazioni, le quali avrebbero sconvolto le regioni temperate, lasciando pressoché indenni quelle tropicali. Questa teoria presenta però alcuni aspetti che non sono verificabili, poiché alcune regioni del mondo, poste ad elevate latitudini, pur essendo state interessate solo in modo marginale dalle glaciazioni, non presentano la biodiversità che ci si attenderebbe. Né sembra più plausibile la teoria, abbastanza scontata, dell’abbondante e rigogliosa quantità di specie vegetali presente nelle zone tropicali per le condizioni ottimali di luce, di temperatura e in molti casi di acqua;
Infatti, si potrebbe obiettare che invece di avere molte specie che condividono un ambiente favorevole, si potrebbero avere poche specie che vivono nell’abbondanza. Non esiste, in altre parole, una relazione scontata tra un’elevata produttività e lo sviluppo automatico di molte specie. Si è prospettata allora l’ipotesi che la maggiore ricchezza di specie, presente ai tropici,possa essere il risultato di un minore tasso di estinzione verificatosi in quelle zone.
L’ecologo David Jablonski, facendo ricorso alla documentazione fossile di invertebrati marini dell’inizio del Mesozoico (225 milioni di anni fa), dimostrò che anche in epoche geologiche passate, la comparsa di nuove specie era avvenuta con maggiore frequenza ai tropici. In un articolo pubblicato su Nature del luglio 1993, egli affermò che quelle regioni della terra erano, senza dubbio alcuno, una fonte inesauribile di novità evolutive, ma non necessariamente a causa di un minore tasso di estinzione.

La ricchezza di speciazione sarebbe allora legata ad una certa stabilità nel clima dei tropici che permetterebbe, ai vari individui presenti, di occupare nicchie ecologiche alimentari più ristrette, cosa che non sarebbe possibile in climi più variabili. Ciò comporterebbe un certo isolamento, nel tempo, delle specie e la conseguente speciazione allopatrica.

La questione, come si vede, è ancora aperta e le diverse teorie sono messe a continuo confronto nel tentativo di raggiungere un accordo che al momento sembra lontano. Basti solo ricordare, per chiudere la questione, che un altro gruppo di ecologici si appella, per spiegare il forte tasso di speciazione, alla instabilità, piuttosto che alla stabilità! Questa teoria, è chiamata in letteratura “Disturbo intermedio” fu formulata nel 1978 da Joseph Connell, un ecologo dell’Università della California, di Santa Cruz.

Fig.: La stabilità del clima dei tropici permette ai vari individui presenti di occupare nicchie ecologiche alimentari più ristrette